Classe, affabilità e proprietà di linguaggio. In sintesi: Renato Tagliani.
Da presentatore di programmi di successo, a imprenditore televisivo che anticipava il futuro. Oltre che professionista dall’eloquio impeccabile.
Da presentatore modello a imprenditore della comunicazione
Il nome di Renato Tagliani, agli appartenenti alla mia generazione (anni ’70), è perlopiù sconosciuto.
In parte è comprensibile: dopo 15 anni – dal 1957 al 1972 – in veste di presentatore di programmi televisivi di successo come Telematch (1957, con Enzo Tortora e Silvio Noto), Giramondo (1957), Canzonissima (1958, con Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Gianni Agus, Enza Soldi), Campanile sera (1959), il Festival di Sanremo (1962) e altri, Tagliani si scontrò con i vertici Rai e abbandonò la tv pubblica in favore di progetti vicini a quella privata.
Il passaggio dalla platea nazionale a quella locale non giovò alla sua popolarità, ma probabilmente a lui questo importava ben poco perché più interessato a mettere a frutto innovative idee imprenditoriali nell’ambito della comunicazione.
La padronanza della lingua italiana
Al di là di questo, il Renato Tagliani presentatore lasciò in eredità ai suoi successori la coscienza del valore della lingua. Già, perché il nostro sapeva fare gli “onori di casa” (come mi piace chiamarli) in tv come nessuno dei suoi contemporanei, in virtù di un’affabilità ed eleganza naturali; ma, soprattutto, di una perfetta padronanza della lingua italiana, usata senza farne sfoggio, ma come utile e chiaro supporto alla conduzione.
Una qualità, questa, che poteva essere considerata imprescindibile in una fase in cui la Rai aveva anche scopo pedagogico nel diffondere la lingua anche in luoghi dove era in uso il solo dialetto; eppure la maggior parte dei suoi colleghi di fama ben più duratura non raggiunse mai il giusto equilibrio tra simpatia dei modi correttezza della parola. Non per niente, a differenza dei colleghi, si conquistò una credibilità quasi giornalistica, tanto da riuscire a intervistare personaggi di rilievo come Pier Paolo Pasolini e Pablo Picasso.
L’italiano: usarlo bene nel contesto giusto
Forse ancora più di ieri, i regionalismi fanno ancora molta presa sul grande pubblico. Non è necessariamente un male, ritengo, perché credo fortemente nel valore della differenza in ogni ambito. Eppure, per assurdo, ciò che manca sembra essere proprio la differenza, l’alternativa alla calata regionale e ai vezzi e vizi dialettali, in un Paese dove si tendono a dimenticare le più elementari regole imparate sui banchi di scuola. Un male che purtroppo affligge persino i media principali.
Personalmente ritengo che ogni persona che parla in pubblico per professione debba curare al massimo il proprio lessico. Questo va naturalmente declinato in base ai contesti: le parole che è possibile usare in uno spettacolo di varietà o in un programma di una radio di flusso sono certamente diverse da quelle che un presentatore può impiegare in un evento corporate o in congresso. È vero che la lingua italiana è complessa. Ciò non toglie che tutto vada sempre comunicato al meglio, in modo chiaro e con le parole appropriate. E, possibilmente, anche con una buona dizione.